Tempo fa mi sono imbattuta in una tesina di una avvocatessa americana specializzata in diritti civili. Analizzava il diritto parentale dal punto di vista dei bambini, concludendo che è di fatto lesivo dei loro diritti civili e paragonando il tipo di gestione concessa ai genitori nei riguardi della prole a quella che regola la proprietà privata. Per Samantha Godwin, un figlio e un’automobile sono uguali davanti alla legge e questa sarà la nuova frontiera per chi si occupa di diritti civili.
Sono d’accordo. Durante il periodo del dottorato incappai in un’altra tesi interessante che diceva, in sintesi: da quando molte pratiche vessatorie sono diventate socialmente inaccettabili nel mondo occidentale (imperialismo, schiavitù, razzisimo, oppressione della donna, eccetera), gli innati istinti di prevaricazione del più debole che sempre vivono negli esseri umani si sono man mano concentrati sui bambini. Il mondo occidentale opprime i bambini, secondo questa tesi, non potendo più opprimere nessun altro.
E per la prima volta, si opprime qualcuno per il suo bene.
Non è certo un articolo di un blog la sede adatta per discutere di questo in modo approfondito. Ma come ho detto, sono d’accordo. Quella che in inglese si chiama adult-child power relationship (cioè la relazione di potere che necessariamente passa tra adulto e bambino in quanto il secondo è totalmente in balìa del primo) è del tutto trascurata in ogni discussione che riguarda l’infanzia.
Così come mai, o male, viene definito in cosa consiste “il suo bene”.
La parte interessante della tesina della Godwin è infatti proprio questa (traduco per voi):
Il riconoscere gli interessi autonomi dei genitori nei confronti dei loro figli dovrebbe essere sempre inteso come una forma di oggettificazione dei bambini. (…)
I cosidetti “beni desiderabili”, come io li ho definiti, sono quelle opzioni personali che sono buone per chi le desidera, ma non sono intrinsecamente buone per chi invece non le desidera. I diritti parentali che sono indipendenti dagli interessi dei bambini sono paradigmaticamente solo variazioni del diritto di selezionare questi “beni desiderabili” a nome dei figli.
Quello che la Godwin vuole dire è che nel momento in cui un genitore sceglie, per esempio, di iscrivere un figlio al liceo nonostante il figlio abbia espresso volontà contraria o non abbia mostrato alcun interesse per quella scuola, asserendo di farlo “per il suo bene”, sta offrendo un bene desiderabile. Cioè un bene che è approvato e offerto dal genitore come “desiderabile” ma che non lo è in maniera oggettiva – non lo è quando il figlio non lo desidera affatto e non ritiene che possa fargli alcun bene.
Nell’imporlo, ecco che nasce l’inghippo della relazione tra adulto e minore. Quella scelta imposta farà davvero il bene del ragazzo? In che modo? Come è possibile dimostrarlo? Non è sufficiente la convinzione del genitore come prova, dice la Godwin, dal momento che ci sono genitori che infibulano le figlie convinti di fare il loro bene.
Discorso lungo e controverso ma che io totalmente appoggio. Nell’analizzare la carta dei diritti dei bambini così come fu scritta diversi decenni fa, è evidente che i problemi dell’infanzia occidentale oggi sono ben diversi da quelli elencati nel documento.
Il mondo è cambiato e così la percezione dell’infanzia e il modo di essere genitori – soprattutto in Italia dove l’incesto emotivo sembra ormai essere la norma. Aggiungo: è la norma probabilmente a causa del passaggio dal “paterno” al “materno” come ruolo centrale all’interno delle famiglie. Altra cosa che richiederebbe discussioni e analisi.
Quel che mi interessa lanciare in questo mio breve intervento è l’idea della necessità di ripensare i diritti dei bambini in termini non di bisogni (che indicano dipendenza) ma di diritti veri e propri, intesi come strumenti per essere attivi e consapevoli membri della società il prima possibile.
E questo includerebbe anche il diritto a occupare parzialmente il proprio tempo con il lavoro, per esempio, organizzato in attività socialmente utili che possano garantire fondi futuri per la propria vita adulta (cosa che si fa in Svezia); o il diritto a non essere tenuti al guinzaglio da genitori ansiosi, cosa che nello UK viene arginata dalle scuole medie in poi con il divieto di accompagnare i figli a scuola. Si comincia dalla quinta elementare con una lettera ai genitori che invita a cominciare ad abituare il bambino o la bambina a spostarsi in autonomia. Anche in una metropoli come Londra.
Detto in parole povere, quel che manca ai bambini al momento – soprattutto nel nostro paese – sono per me alcuni elementi fondamentali per potersi definire “esseri umani” e non “proprietà di qualcuno”:
- Autonomia
- Privacy
- Indipendenza
- Tempo libero senza supervisione
- Esperienze di vita pratica
- Partecipazione alla vita sociale
- Partecipazione alla vita politica
- Doveri e responsabilità nei confronti della famiglia e del prossimo
- Voce in capitolo in questioni che riguardano direttamente l’infanzia/adolescenza
- Strumenti adeguati affinché avere voce in capitolo sia possibile – piuttosto che coltivare la passività e la dipendenza a oltranza
Se potessi decidere, questo sarebbe il mio programma di partenza. Non le leggi sull’abbandono del minore che equiparano un bambino a un anziano demente o a un disabile incapace di intendere e di volere. Non le leggi che obbligano i genitori ad accompagnare i figli a scuola fino a vent’anni. Ma leggi che circoscrivano il controllo parentale e responsabilizzino i bambini e i ragazzi fin da subito.
Sempre tenendo a mente che in Italia la seconda causa di morte tra gli under 20 è il suicidio. E che ansia, depressione, demotivazione, apatia e mancanza di autostima si manifestano sempre prima, persino negli under 10. Perché i bambini sono psicologicamente fragili? No, perché il modello genitoriale contemporaneo è quello dell’aguzzino carceriere, psicologicamente fragile e dipendente da quel potere che può legittimamente esercitare sulla prole.
E lo so, sono drastica. Ma come dice la Goldwin, questa sarà la nuova frontiera dei diritti civili. O almeno si spera.